di Sergio Gabriele

Olga De Gasperis non è soltanto “Uomini messi a nudo”, ma questo tema è senz’altro un tracciato principe della sua trasfigurazione artistica, imago pittorica, scultura a due dimensioni che non lesina la profondità espressa viceversa nel suo materico monumentale o nei vetri striati dall’orizzonte su gocce di reminiscenza, concrezioni di colore liquido, attraversamenti cromatici rappresi.
Tutto, però, sembra ricondurre alla svestizione dell’aner, ovvero del prototipo dell’angelo vendicatore, mentore vessatore, inseminatore veggente, ma lasco e superficiale. Una sorta di tragedia lieve, quest’uomo ritratto nelle sembianze tenui del mannequin, non solo ingentilito dalle ali e dai tratti efebici, nient’affatto ferini, ma acidamente impreziosito da legacci sordidi, anche se appena accennati. Quest’uomo che stenta a farsi duttore, ma semplicemente padrone, di cosa poi se non del niente rappresentato, in una statica pseudo-remissione da un peccato originale da cui oltretutto la storia lo dispensa, lo assolve. E’ come se dalla narrazione millenaria delle sue scorribande, quest’uomo, mostrasse poco più di un retorico pentimento, un afflato risibile di condivisione, lasciandosi immortalare nel suo sacrario di smunte argomentazioni: il nudo.
Il nudo è la prima forma di travestimento, diceva qualcuno, ed è lì che Olga ricompone la mestizia dell’essere umano, nelle sue chiome fluenti che celano grumi di sangue, nei corpi a volte intrisi della femminilità che il maschio nasconde come una vergogna, nei sessi stanchi ma dignitosi, come se l’amore rifuggisse a volte dalla potenza ostentata, millantata da un fauno fiero di sé in punta di zoccoli, ma che poi detesta guardarsi nello specchio, proprio come l’animale.
In primis Olga rivolge lo specchio, riconverge il fuoco convesso, acché l’uomo abbia un istinto a ritrarsi, ottenebrato dall’idea della sua bruttura, ma qual è la sorpresa nel vedere la sua nudità riconcepita, nel rifrangente gioco della seconda e terza personalità. Una sorpresa amara, se raffrontata allo stilema che vuole la donna per ore a posare, in fredde accademie, o in studi altrettanto gelidi di artisti costretti fino alla demenza a ritrarre le forme auspicate del ritorno, di qualcosa che loro stessi hanno scacciato via con virulenza.
Non si attribuisce ad Olga la temerarietà dell’innovazione, del ribaltamento dei ruoli, ciò cattura l’incauto superficiale, che si nutre ad ampi sorsi della figurazione nel tentativo di ripristinare le sviste adolescenziali dell’infanzia stessa del genere umano. Olga semplicemente svela a strati la cognizione ambiversa dell’origine, quella scevra da vincitori e vinti, a volte edulcorata con finalità opposte, di una cauta vendetta ante litteram, ma è solo un attimo, perché il dipingere mette a tacere le analisi sibilline dell’amore come odio rovesciato, dell’ipocrisia come difesa funzionale nell’eterno conflitto di genere.
Il colore. Disorienta la tela di Olga perché scimmiotta il manierismo di drappi e colonne dal capitello ionico, rubizzi giochi di prezzolate immobilizzazioni fra sacro e profano, rinascimentali travisazioni della realtà reale, in sguardi che si perdono fra fondali scenici qualunque. No, la scena è cruda, sempre, abbellita dalla misura presa con il pennello, ma impietosa. Il modello non ha artifizi scenici cui aggrapparsi, trompe-l’oeil che appesantiscano la sua leggerezza, ma viene lasciato nudo di fronte a se stesso, non in quanto svestito, ma, finalmente, attanagliato dalla ricerca disperata di un senso.
Questo concetto è ribadito dal rifiuto di vie di fuga strumentali quali l’abbandono della prospettiva, la confusione semantica di colore e forme di picassiana memoria, nelle quali sarebbe stato facile stemperare la negazione negata, lasciando al lettore l’incombenza dei nuovi significati.
Olga si muove fra i generi, come veli che si svelano, prediligendo il figurativo concreto ma non formale, rispettando le proporzioni, i chiaroscuri neuroplastici, i movimenti cromatici dell’anima, senza lasciar loro il tempo di diventare dipinto, o schizzar via in analisi solforiche del rifiuto. Il gioco di luci che ne risulta è molteplice, l’uomo che inebetisce di fronte ad una nudità mai profondamente saputa, neanche nella propria partner più o meno occasionale, l’autrice si confonde con la messa in scena, rifrangendo il respiro di un’opera mai compiuta, bensì lasciata a un divenire quasi fotografico, ovvero di morte apparente, e il fruitore finalmente ripristina la sua parte in causa, come erede legittimo delle aspirazioni di entrambi, in un gioco di identità multiformi che va oltre il simbolismo o la partitura da palcoscenico.
Trattasi di liberazione panica da schemi e sovrastrutture, di fluido che scorre, amniotico o spermatico poco importa, a questo punto, tinto dalla gradazione del ritratto, che ritratto non è, ma tratto da ciò che il magma lascia alle volte intravedere a spiriti sensibili che pongono, e si sottopongono.
II tema è triste, il nudo non sarà mai nudo, veramente, i nodi non si sciolgono per una pura acquiescenza alle analisi interattive, seppur mediate dalla trama, ma Olga in fondo non vuole sciogliere alcun nodo, non vuole ridurre, sedare o reiterare alcun conflitto, non si nutre dell'amaro calice della soluzione. Olga semplicemente mette se stessa a nudo, il suo cuore, il suo corpo, celata nell’0mbra della Iuce del suo alter ego, del sogno sognato, e della realtà assolutamente enfatizzata perché resti presente, nello sguardo di ciascuno.